Un venerdì sera a Molvena prima della chiusura aziendale estiva.
Aperitivo ed evento dedicato ai collaboratori aziendali in Bonotto.
Un paio d’ore di esperienza per rientrare con chiare le ragioni per le quali una “piccola impresa” (una “impresa larga, come direbbe Giorgio DI Tullio ) del nord-est ha saputo guadagnare la rilevanza mondiale che il mercato le riconosce.
Una carica, uno spessore culturale ed una dote di contributi artistici raccolti negli anni irraggiungibile per qualunque aspirante competitor.
Non una posa, nessuna attività di comunicazione e di marketing destinate a simulare cultura ed impegno aziendale.
Semplice ed essenziale realtà di un’azienda in cui la dose minima di cultura indispensabile, oggi, ad essere semplicemente esistenti, è presente in modo esponenzialmente superiore alla media e pervade fisicamente gli spazi lavorativi, contagiando obbligatoriamente le persone. Dai manager, ai visitatori, a chi si occupa anche solo stagionalmente delle campionature.
E’ inevitabile e consequenziale, in un contesto così, che i tessuti prodotti siano delle opere d’arte, non imitabili e non fungibili.
Il prodotto che il mercato si disputa è la conseguenza della cultura aziendale. Così come i prodotti che il mercato rifiuta o cerca di acquistare al ribasso sono conseguenza della mancanza di cultura e culture aziendali.
L’iperconnessione tra le persone ha reso possibile ed obbligatorio questo nuovo umanesimo industriale.
In tutto questo, tornando alla serata di venerdì, l’evento pensato per i collaboratori è stato, adeguatamente, questo.
Niente di pigro, scontato, rassicurante o prevacanziero, ma qualcosa di esigente e faticoso a cui assistere, cosi come deve essere.
Bravi davvero.
Credits immagine: Fondazione Bonotto, Geoff Hendricks, Portrait of the artist and the customer, 2013